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Veragouth e Xilema partner industriale in progetti di ricerca
Una responsabilità per il futuro
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Di Chiara Fanetti
L’architetto Marco d’Azzo ha curato, con Veragouth e Xilema, il recupero e risanamento di un’abitazione privata a Montagnola, originariamente commissionata dal filosofo tedesco Max Horkheimer all’architetto ticinese Peppe Brivio. La casa, in cui l’intellettuale iniziò a vivere nel 1958, faceva parte di un progetto più ampio, che comprendeva una gemella speculare in cui visse, dal 1954, l’economista Friedrich Pollock. I due esponenti della Scuola di Francoforte avevano concepito i due edifici insieme, per realizzare, con le rispettive compagne, una “piccola utopia”. Se la villa inizialmente abitata da Pollock è stata abbattuta diversi anni fa, quella appartenente ad Horkheimer è stata invece acquistata da proprietari interessati a recupera e rispettare la visione di Peppe Brivio.
Architetto d’Azzo, il lavoro di recupero prevedeva una precisa comprensione del progetto originale di Peppe Brivio. Su quale documentazione si è potuto appoggiare?
Marco d’Azzo:
La ricerca si è appoggiata sui documenti presenti all’Archivio Storico Ticinese, all’Università, all’Accademia di architettura di Mendrisio. Inoltre abbiamo avuto notizia che il Fondo Peppe Brivio era conservato presso gli Archivi Architetti Ticinesi e, anche se la casa era in ottime condizioni, è stato importante trovare tutta la documentazione degli esecutivi e dei dettagli dell’edificio perché ci ha dato conferma che non c’erano praticamente state manomissioni. Eravamo certi che Brivio avesse disegnato la casa così e che così voleva che fosse costruita. Abbiamo trovato tutto nei documenti: porte, finestre, mobili, tutti disegnati e dettagliati. Volendo fare un progetto conservativo, il supporto della documentazione ha facilitato il nostro lavoro.
Per il tipo di lavoro richiesto, che doveva tenere conto di tutti questi dettagli, quando ha coinvolto Veragouth e Xilema?
Marco d’Azzo:
L’incontro con Giacomo Veragouth è stato uno dei primi, appena ho ricevuto il mandato. È una fortuna che ci siano ancora aziende che non viaggiano solo sulla standardizzazione, sulla vendita di prodotti innovativi ma che sono ancora capaci di mettere le mani su oggetti curati e complessi, come ad esempio la libreria presente nello studio della casa, fortemente voluta da Horkheimer.
La casa su cui siete intervenuti aveva una “gemella” speculare inizialmente, che è stata però abbattuta per fare posto ad un edificio completamente diverso, rovinando l’idea originale sviluppata da Max Hokheimer e da Friedrich Pollock. Nel vostro caso invece lo scopo dell’intervento è stato quello di conservare. Come è stato possibile?
Marco d’Azzo:
A monte c’è una proprietà sensibile. Il fatto che qualcuno compri una casa del genere e non lo faccia per costruire tutti gli indici a disposizione – perché la casa non li sfrutta minimamente – è già significativo, infatti l’idea è stata subito quella del restauro e io sono stato chiamato proprio per questo. Da una decina d’anni mi occupo praticamente esclusivamente di recupero, per una semplice riflessione che ho fatto: se non sono gli architetti a salvaguardare i nostri edifici, chi lo fa? Non si può pensare che lo speculatore immobiliare abbia quest’attenzione e a livello cantonale si è cominciato molto tardi a pensare che i grandi architetti del Moderno, che hanno lavorato in Ticino, dovessero essere salvaguardati, esattamente come quelli dei primi del Novecento. Per fortuna ci sono ancor persone che hanno piacere a vivere in case con questi volumi e quella su cui abbiamo lavorato io e Giacomo ha degli spazi bellissimi.
Quali sono stati gli interventi più corposi che avete dovuto affrontare, lavorando in tandem con Veragouth e Xilema?
Marco d’Azzo:
Sicuramente tutta la parte realizzata in legno, sia interna che esterna, quindi per l’involucro direi i serramenti e per l’interno direi che i mobili di recupero sono stati un tema particolarmente impegnativo. Per questo ho dovuto incontrare subito Giacomo.
Giacomo Veragouth:
I dettagli erano qualcosa di strepitoso. La libertà progettuale era intrigante, semplice, dei dettagli leggeri per la loro concezione. Oggi rifare questi serramenti, con i concetti costruttivi contemporanei, significa far molta fatica per ottenere la stessa leggerezza. In un risanamento chi chiama l’architetto e l’artigiano deve chiedersi se dall’altra parte c’è qualcuno che interpreta bene ciò che il cliente vuole. Noi come artigiani dobbiamo chiederci se la logica è andare in una direzione tecnica, seguendo le nuove normative, o perseguire il mantenimento della leggerezza del progetto iniziale: bisogna essere capaci d’interagire nel modo corretto. Sono due strade, in questo caso l’architetto che vuole concepire un nuovo prodotto sulle basi dell’idea originale, piuttosto che chi vuole reinterpretare in mille modi diversi. Noi abbiamo bisogno di cooperare con persone molto preparate e quando questa preparazione c’è, come con l’architetto d’Azzo, il processo magari è più complesso, ma ti permette di avanzare in modo sicuro con il lavoro.
Marco d’Azzo:
Sono delle sequenze di scelte che devono avere una loro coerenza. Una volta che hai definito con quale filosofia affrontare il lavoro, la devi applicare ai serramenti, alla struttura, agli impianti: devi fare in modo che in ogni sua parte la casa non sia trasfigurata dagli interventi.
Avete già accennato alla libreria presente nello studio, un elemento di grande interesse della casa. Entriamo nel dettaglio del lavoro che avete dovuto operare.
Marco d’Azzo:
Uno dei motivi per cui la proprietaria si è innamorata della casa è proprio lo spazio dove c’è la libreria. È un luogo incredibile. Ci sono persone, in questo mestiere, che entrano in uno spazio del genere e devono assolutamente far in modo che si veda che sono intervenute. Io ho l’atteggiamento opposto. L’abbiamo smontata e rimontata diverse volte, abbiamo campionato le finiture per riuscire ad ottenere lo stesso effetto e siamo riusciti a raggiungere quello che m’immaginavo.
Cosa si è reso necessario fare?
Marco d’Azzo:
Abbiamo rifatto i pavimenti e tutti gli intonaci ma gli adeguamenti in questo locale sono stati minimi e per fortuna la libreria aveva un elemento di chiusura a soffitto che poteva essere cambiato e che ci ha permesso di lavorare bene. Per il calcolo termico la soluzione più semplice sarebbe stata fare un isolante interno, però avremmo dovuto abbassare di minimo 10 centimetri la libreria, segandola. Lo spazio l’avremmo avuto ma il volume si sarebbe rimpicciolito e sarebbe cambiato tutto. La priorità per la proprietaria era che la biblioteca restasse esattamente com’era.
Giacomo Veragouth:
Sarebbe costato a tutti molto meno una nuova libreria identica con materiali contemporanei, ma si voleva l’autenticità. La libreria attuale è quella originale, montata e rimontata tre volte, anche in due luoghi diversi per le prove tecniche. Sono lavori che richiedono tempo ma questo è il percorso da intraprendere per valorizzare certi elementi, per capirli. I dettagli si scoprono uno alla volta. Anche le porte hanno richiesto il giusto tempo di lavorazione, necessaria per interpretare in modo corretto l’autenticità del prodotto. Abbiamo fatto tante prove per capire la materia, se era troppo lucida o troppo opaca, troppo nuova o troppo vecchia.
Marco d’Azzo:
Questo modo di lavorare richiede cura e una collaborazione intensa. Si va sul posto, si controlla, si corregge, si discute. Si fonda tutto sul rispetto: prima di tutto del progetto, dell’architetto Peppe Brivio, e dopo, a seguire, il rispetto per il lavoro dell’artigiano, Giacomo, e per quello che voglio io, l’architetto. Si deve trovare un punto di coesione e credo che con questo progetto, lavorando in questo modo, siamo arrivati ad un livello qualitativo particolarmente alto.
Potete dirmi qualcosa sui materiali? Che riflessioni avete fatto rispetto al progetto di Brivio?
Marco d’Azzo:
Nei confronti del recupero ci deve essere un atteggiamento di coerenza. Se lavori in una casa dei primi del Novecento puoi rifare il pavimento a lisca di pesce, a spina ungherese, a spina francese. Con lo stesso atteggiamento si deve entrare in una casa degli anni ’60 e per la scelta dei materiali abbiamo seguito la linea di gusto della modernità. Ci sono dei rivestimenti in piastrelle che hanno il sapore di quegli anni e il pavimento di legno al piano di sotto è fatto con cubetti di rovere che sono stati selezionati, campionati e mostrati al cliente. Abbiamo trovato un materiale diverso rispetto a quello iniziale ma che richiama quel sentimento. Anche la cucina è stata disegnata come quelle di quegli anni, ma modernizzata. Noi abbiamo proposto, il cliente era d’accordo su tutto: un esempio abbastanza raro di partecipazione del committente rispetto alle scelte fatte.
Non tutte le persone si possono permettere queste case, queste riflessioni di dettaglio. Quanto credete che sia - oltre ad una questione economica e di fiducia - anche una questione di cultura?
Marco d’Azzo:
Moltissimo. È sempre una questione culturale. Bisogna essere capaci di riconoscere una cosa bella, poi essere interessati a farla propria e a voler intraprendere un’operazione di restauro. Ci vuole una passione nei confronti di questo tipo di oggetti.
Giacomo Veragouth:
Oggi costruiamo edifici che stanno in piedi per anni, se si fa senza criterio si rischia di rovinare aree e quartieri. È una responsabilità importante, per questo lo specialista non può essere solo un tecnico. Ingegnere e architetto storicamente devono collaborare in sinergia. Il bello è qualcosa di necessario, dobbiamo perseguirlo. In Ticino e in Svizzera c’è un percorso molto attento nel costruire, l’architetto ha un ruolo preciso e per noi come struttura, come azienda, è un punto di riferimento. Per noi il cliente è l’architetto. Il committente finale è quell’interlocutore necessario, che per fortuna esiste, ma chi ci accompagna nel progetto è l’architetto.
Marco d’Azzo:
Dietro un progetto di qualità c’è sempre un cliente illuminato, però deve attivarsi una fiducia reciproca. Io devo lavorare senza risparmiarmi per arrivare ad un certo risultato qualitativo e la proprietà deve fare la sua parte, in termini economici ma anche di presenza. L’identificazione della bellezza è una cosa che va al di là di tutte le regole. Le regole devono essere pilotate per il raggiungimento di un risultato, l’importante è conoscerle e cercare di addomesticarle alle scelte di progetto. È un percorso fatto di scelte continue e riguarda anche la storia dei luoghi. I luoghi hanno un’anima e quest’anima va tutelata. Questo senso di responsabilità credo che abbia formato tutta la mia vita professionale. Io ho scelto di operare poco in contrasto, di fare scelte armoniche rispetto a quello che trovo dove intervengo. Ho avuto la fortuna di lavorare a Berlino, negli Stati Uniti, a Siviglia, e non si può costruire nello stesso modo a Berlino o a Montagnola.
Nell’intervista si è parlato molto di coerenza, di rispetto e di responsabilità. Che mestiere è quello dell’architetto?
Marco d’Azzo:
Io credo che sia una mestiere meraviglioso. Ho un debito enorme di riconoscenza nei confronti di mio padre, perché quando lasciammo Milano per il Ticino, nel ’79, m’indirizzò verso questo lavoro, osservando le mie propensioni umanistiche e la mia voglia di capire come funzionano le cose. Prima della fine del liceo avevo fatto due estati da un liutaio, come ragazzo di bottega, quindi evidentemente questa cosa del materiale, del funzionamento, mi ha sempre affascinato. Credo sia stato il consiglio più bello che abbia ricevuto da mio padre perché tra poco saranno 40 anni che ho lo studio e non mi sono mai svegliato un giorno dicendomi “oh no, devo andare a lavorare”.
1-Intervista all’architetto Marco d’Azzo
2-Intervista all’architetto Marco d’Azzo
3-Intervista all’architetto Marco d’Azzo
4-Intervista all’architetto Marco d’Azzo
5-Intervista all’architetto Marco d’Azzo
6-Intervista all’architetto Marco d’Azzo
Crediti:
Foto: Simone Cavadini